Il libro di Antonio Polito è un’autobiografia politico introspettiva che ripercorre i sogni e le aspirazioni di una generazione che si è trovata a fare i conti con lo svanire di un illusione ideologicamente alimentata. Il percorso è interessante perché mostra nell’autore, a tratti, una lucida autocritica, vittima anch’egli di quella che, parafrasando Karl Popper, definisce una “presunzione intellettuale”[1].
Lucida anche l’analisi storica, da attento cronista politico quale indubbiamente Polito è; una lettura dei fatti e dei “fenomeni del momento” fatta con lo sguardo, appunto, del cronista emotivamente coinvolto e del commentatore, successivamente distaccato. È così per Tony Blair[2], per i rivoluzionari democratici dell’Est Europa, riscopertisi, oggi al governo, illiberali demagoghi.
Lucida la riflessione sull’Europa[3], meno, molto meno, la prospettiva antropologica che difetta di un’autentica consapevolezza degli errori, anche personali, del passato.
Piuttosto, infatti, gli errori del passato sono incidenti di percorso che però pare non abbiano insegnato un metodo nuovo di analisi. E questo è chiaro nelle conclusioni dove Polito, oggi liberale, afferma con la stessa assertività di quando era comunista o blairiano che «Il liberalismo è la parte giusta della storia». Rivendica in questo liberalismo economico, che si traduce sempre più spesso in un liberismo etico, la bontà delle scelte di campo sul “Referendum sul divorzio”, certo, ma anche sul “Referendum sull’Aborto” e “Referendum sull’inseminazione artificiale”, mostrando di non avere ben chiara la differenza di radici e di prospettiva delle diverse scelte.
Polito ravvisa il bisogno di «avere una stella polare: per ogni problema scegliere sempre la soluzione che arrechi il minor danno possibile alla libertà individuale». Quanta scarsa ambizione per quest’uomo moderno (inteso in generale, non riferito al povero Polito) che si curva sul proprio ombelico senza immaginare che il perseguimento del bene possibile possa essere riconosciuto e raggiunto soltanto nel rispetto della legge eterna.
Permane un’antropologia autoreferenziale che totemizza la libertà tradendone il senso: «Perché una norma possa comprimerla o ridurla ci deve insomma essere una superiore e comprovata necessità di proteggere la libertà degli altri». Ma l’esercizio della libertà, non vissuto in una logica di relazione teleologica che mira alla realizzazione dell’uomo, rischia di tradire il proprio obiettivo. Non va inseguita una libertà che ci protegge dagli altri, ma che si realizza nell’altro. Una dimensione antropologica siffatta manca del concetto dell’autorealizzazione dell’uomo.
La risposta allo stato etico che tanto preoccupa Polito non è questa mera protezione della libertà degli altri, ma l’etica della libertà che si esercita nella coscienza vissuta autenticamente come “sacrario dell’uomo” (GS16).
Una coscienza che spinge Polito all’autocritica[4], ma che lui decide di non ascoltare fino in fondo.
È proprio in quest’ultimo passaggio che Polito rinuncia ad andare fino in fondo. Sfiora soltanto l’umanesimo ma non lo vuole cogliere[5], non arriva a trarre le conclusioni di un discernimento della storia[6]. Qual è l’uomo a cui Polito pensa, la persona o l’individuo?
Dopo quarant’anni la buccia su cui scivola ancora Polito, e con lui tanti altri, è il non voler riconoscere che la libertà è lo strumento che ci è dato per riconoscere la verità che abita nella coscienza, preferendo invece ancora una volta adattare la propria coscienza a una presunta verità personale.
È per questo che Polito sfiora Giovanni Paolo II, guarda con interesse a Papa Francesco[7], ma non arriva a cogliere il cuore di quell’ecologia integrale che da Gaudium et Spes fino a Laudato si’ aiuta l’uomo a conoscere l’uomo. Il vero umanesimo si costruisce su un’ambiziosa e autentica umiltà.
© Vito Rizzo 2020
[1] Grazie ad alcuni passaggi Polito consente al lettore di entrare nei suoi personali criteri di analisi, con genuinità ed onestà intellettuale, basti pensare a quando scrive che «Non risponderei davvero: credevamo nel comunismo. Quella era un’utopia che aveva allora già ampiamente mostrato, anche ai nostri occhi, il suo fallimento. Ciò che davvero ci spingeva e ci motivava, e che non potevamo trovare altrove, era piuttosto il nostro “storicismo”, il bisogno di condividere una “metafisica della storia e del destino”, che non era certo un difetto minore, né un vizio meno pericoloso dell’adesione al comunismo, tanto è vero che continuò a produrre i suoi effetti anche dopo la fine di quell’idea. La nostra formazione culturale, e il tempo che vivevamo, ci dicevano che la storia ha una direzione e noi eravamo in grado di capire quale fosse»; o ancora «Questa è l’unica spiegazione plausibile del fatto che gente come me, che quindici-venti anni prima aveva aderito al Partito comunista italiano, abbia poi aderito con lo stesso entusiasmo al movimento che provocò la caduta di tutti i partiti comunisti dell’Occidente, compreso il nostro: il liberalismo. Non era opportunismo, o almeno non solo; era il fascino di un nuovo “storicismo”, generato dall’idea hegeliana per cui ciò che è reale è sempre razionale, e che dunque bisognasse stare dalle parte della ragione per aver ragione. […] Avevamo un bisogno costante e narcisista di far parte di una rivoluzione»; A.Polito, Il muro che cadde due volte, Solferino editore 2019.
[2] Polito illustra da un lato lo slancio vissuto dalla nuova sinistra: «La globalizzazione portava così il capitale dove non c’era mai stato, e faceva entrare nella modernità centinaia di milioni di esseri umani, soprattutto in Asia, ampliando in maniera prima sconosciuta sia la capacità di offerta di beni e servizi a basso costo sia la domanda di grandi masse di consumatori. Insomma, sembrava essersi avviato il circolo virtuoso e perfetto di una lunga stagione di prosperità, in cui la sinistra avrebbe potuto smettere di battersi contro l’ineguaglianza, riconoscendo anzi che una modica quantità di disuguaglianza rendeva il sistema più efficiente e più capace di produrre ricchezze per tutti. […] Per stare meglio i poveri, bisognava dunque far stare meglio anche i ricchi. Blair fu il profeta di questa nuova religione»; dall’altro la superficialità di approccio che quell’euforia modernista di fatto trascinava con sé: «Non avevamo previsto i mini jobs, i contratti precari, i poni express e Foodora, i lavoretti e la disoccupazione di massa che è arrivata al posto dell’economia della conoscenza. Soprattutto, non avevamo capito […] che la corsa a produrre ricchezza stava gonfiando una bolla di gigantesche proporzioni, e che prima della fine del decennio sarebbe esplosa in America, proiettando le sue onde come uno tsunami sul resto del mondo. Esiste un nesso perfino temporale tra le sorti della new economy e quelle della sinistra nuova che immaginavamo di costruire sulle macerie del Muro di Berlino»; A.Polito, ivi
[3] Polito constata che «L’Europa oggi è assediata da Paesi, emergenti e già emersi, che privilegiano apertamente la crescita economica e il benessere alla salvaguardia delle risorse non rinnovabili dell’ambiente. […] Come può reggere, in queste condizioni, il progetto dei padri fondatori? Il risultato delle elezioni del maggio del 2019 non ci autorizza più a credere che la nostra civilissima Europa non corra i rischi di una svolta autoritaria e illiberale»; A.Polito, ivi
[4] Polito riconosce che «Nel DNA del liberalismo esiste dunque un gene dell’elitarismo da cui bisogna costantemente guardarsi, che va continuamente corretto». Rincara anche la dose: «La vita continua e prima o poi qualcosa di buono tornerà. Purché ci liberiamo dalla superbia che ci fa concludere, ogni volta che il mondo non si lascia portare nella direzione da noi voluta, che è il popolo ad andare fuori strada. Sarebbe paradossale se da liberali finissimo per compiere gli stessi errori fatali che tanti di noi, sessantottini o giù di lì, commisero da comunisti». Riconosce ancora nella sua autocritica che «Il rischio esiste, perché siamo sempre quelli di prima, e l’hegelismo ha scavato tracce profonde nei nostri intelletti, predisponendoli alla presunzione che di ogni svolta ci fa dire: “l’avevamo previsto”. Quasi come se non ci fossimo contraddetti mai, ma avessimo semplicemente intuito e seguito le evoluzioni della storia. E se alla fine è andata male, la colpa è sua, mica nostra, che cadiamo sempre in piedi»; A.Polito, ivi
[5] Polito constatat l’importanza di «Non dimenticare mai che la realtà non è tutta comprensibile con gli strumenti della conoscenza e del pensiero, in nome dell’astrazione di una Ragione deificata. Trent’anni fa non avrei detto una cosa del genere, mi sarebbe sembrata una bestemmia per la fede nella palingenesi dell’uomo cui aderivo. Ora so che la politica è solo un’attività umana, neanche tra le più efficaci, e che è solo l’uomo a contare davvero, più di ogni altra cosa»; A.Polito, ivi
[6] Afferma Polito: «Se chi verrà dopo di noi riuscirà a fondare su queste basi un nuovo umanesimo, forse potrà riscattare anche le sconfitte della nostra generazione, dare un senso a ciò in cui abbiamo creduto in questi trent’anni, prenderne il buono (che non è poco: l’amore per la libertà) e buttare il superfluo (che l’ha corrotto: la presunzione di verità)»; A.Polito, ivi. Il presupposto c’è tutto, peccato che le conclusioni non traggano tesoro da tale considerazione, cadendo nel medesimo difetto con abiti diversi.
[7] Interessante il suo tentativo di capire l’umanesimo cristiano che però, anche in questo caso, si lascia distrarre dalle disfunzioni non soffermandosi a coglierne la dimensione autentica, che riconosce legittima ma che rinuncia ad indagare, prova ne sia che così la liquida: «Calmiamoci. La competizione non è l’unico modo di vivere. E una società ricca come la nostra deve poter consentire, a chi lo vuole, di non vivere così. Esiste poi per molti anche una concezione provvidenziale della storia, quella che deriva dal pensiero cristiano, secondo il quale una potenza superiore è all’opera nelle vicissitudini dell’umanità, e la conduce in direzioni imperscrutabili, ma tutte in definitiva buone perché parte di un progetto di salvezza. Anche questa è un’idea che, se male interpretata, può indurre ad atteggiamenti quietisti, a rassegnazione, ad accettazione acritica del reale»; A.Polito, ivi.
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