Rileggere con la lente della storia il tentativo politico di Aldo Moro di aprire l’arco costituzionale alle forze politiche escluse dalla dinamica competitiva permette di cogliere la lungimiranza dell’uomo di Stato, del cristiano impegnato in politica, fedele all’interesse generale e al perseguimento del bene comune anche a dispetto degli apparenti interessi “di parte”. O forse rileggere Moro col senno di poi consente di cogliere la sua capacità di interpretare gli interessi della propria parte proprio nella rottura di quella conventio ad escludendum che si è rivelata per la stessa Democrazia Cristiana il veleno che ha bruciato le sue stesse radici. Una visione cristiana che oggi troviamo sempre più familiare nella declinazione dei quattro principi cardine della visione di Papa Francesco e organicamente esplicitati nella Esortazione Apostolica Evangelii gaudium: il tempo è superiore allo spazio (EG 222), l’unità è superiore al conflitto (EG 228), il tutto è superiore alla parte (EG 235), la realtà è superiore all’idea (EG 231). Principi che traducono il cuore della stessa Dottrina Sociale della Chiesa e che quindi possono essere utilizzati anche al di fuori dei confini pastorali quali criteri ermeneutici della realtà sociale e politica.
Le cause della morte di Aldo Moro si possono rileggere proprio nella declinazione al contrario di quegli stessi principi. Preservare lo spazio, rimarcare l’esigenza dell’esclusione dallo spazio di governo delle forze politiche antagoniste, rimarcare l’autosufficienza dei soli partiti centristi quale ossatura del sistema democratico, cristallizzare l’idea di Yalta a dispetto del radicamento popolare dei partiti di ispirazione comunista e socialista. È in questa logica di rifiuto che si riscontrano le radici politiche e ideologiche che hanno portato ai tragici eventi che hanno sconvolto l’Italia dal 16 marzo al 9 maggio del 1978.
La visione politica di Moro del resto era già chiaramente ravvisabile nel contributo dato ai lavori dell’Assemblea Costituente, in quella idea di democrazia che aveva cercato di tradurre nel nuovo ordinamento statale: «Se nell’atto di costruire una casa nella quale dobbiamo ritrovarci tutti ad abitare insieme non troviamo un punto di contatto, un punto di confluenza, veramente la nostra opera può dirsi fallita. Divisi – come siamo – da diverse intuizioni politiche, da diversi orientamenti ideologici, tuttavia noi siamo membri di una comunità, la comunità del nostro Stato e vi restiamo uniti sulla base di un’elementare, semplice idea dell’uomo, la quale ci accomuna e determina un rispetto reciproco degli uni verso gli altri»[1].
In Moro l’unità era superiore al conflitto.
Di conseguenza è bene sgombrare il campo da un facile e abituale equivoco: l’idea di Moro non era il “compromesso storico”, non era cioè quella di governare con il PCI in un sistema bloccato, ma piuttosto lavorare per la democrazia dell’alternanza, per fare in modo che «ci siano alternative reali di governo alla Dc» in quanto «non è affatto un bene che il mio partito sia il pilastro essenziale di sostegno della democrazia italiana. Noi governiamo da trent’anni questo Paese. Lo governiamo in stato di necessità, perché non c’è mai stata la possibilità reale di un ricambio che non sconvolgesse gli assetti istituzionali ed internazionali […]. La nostra democrazia è zoppa fino a quando lo stato di necessità durerà. Fino a quando la Democrazia cristiana sarà inchiodata al suo ruolo di unico partito di governo»[2]. L’esigenza era quindi quella di rendere la democrazia italiana realmente compiuta.
In Moro il tutto era superiore alla parte.
L’assassinio di Aldo Moro, come accertato anche dalla Commissione Moro 2 presieduta da Giuseppe Fioroni, si spiega con l’esigenza «di allontanare il partito comunista dall’area del potere nel momento in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del paese. Non si vuole che accada»[3]. Una lucida spiegazione del giornalista Mino Pecorelli e che ha visto l’idea soffocare la realtà: «È Yalta che ha deciso via Fani»[4].
In Moro la realtà era superiore all’idea.
L’eredità di Aldo Moro è dunque proprio in questa capacità di leggere la realtà con la forza dell’ispirazione autentica, «la capacità di vivere pienamente il presente politico pensando alla sua trasformazione»[5]. La politica cristianamente ispirata che Moro ha perseguito e testimoniato fino al martirio è quella che è in grado di guardare oltre, di alimentare una visione che superi le contingenze del momento, che costruisca nel presente le radici del domani.
In Moro il tempo era superiore allo spazio.
Non così per la fragile democrazia italiana.
© Vito Rizzo 2020
[1] Atti Assemblea Costituente, 13 marzo 1947, in www.camera.it/; G. Rossini (ed.), Aldo Moro. Scritti e discorsi (1940-1978), 6 voll., Roma, Cinque Lune, 1982-1990
[2] La prospettiva politica immaginata da Moro emerge con chiarezza in un’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari e pubblicata postuma nell’ottobre del 1978, in A. Di Mario, L’attualità di Aldo Moro negli scritti giornalistici (1937- 1978), Napoli, Pironti, 2007, 31.
[3] Mino Percorelli in M.A.Calabrò – G. Fioroni, Moro. Il caso non è chiuso. La verità non detta, Torino, Lindau, 2018.
[4] Cf. Mino Percorelli, ivi
[5] F.Occhetta, Aldo Moro a 40 anni dal suo sacrificio, Civiltà Cattolica 4042-4, 335.
Leave a Reply