Il prossimo 9 maggio il “giudice ragazzino” sarà proclamato Beato da Papa Francesco.
Un martire della fede ucciso dalla Mafia. Bisogna partire da qui per comprendere il senso pieno della testimonianza di Rosario Livatino, giovane magistrato, assassinato a 37 anni il 21 settembre 1990 sulla Strada Statale 640 che lo portava da Canicattì ad Agrigento, città dove svolgeva il suo ruolo di magistrato dal ’79, prima come sostituto procuratore e poi dall’89 come giudice.
Vittima della mafia, come tanti, come troppi. Ma non solo, ucciso “in odium fidei”, in odio alla fede, di quella fede in Gesù che animava il suo esercizio di giustizia.
Rosario Livatino non era semplicemente un “magistrato cattolico”, era un cristiano che, permeato e ispirato quotidianamente dalla grazia della fede, viveva con coerenza il suo ruolo di servitore dello Stato. È stato assassinato dalla mafia perché esercitava la sua missione di cristiano nel mondo, combattendo l’ingiustizia, i soprusi, la prepotenza, il malaffare, la violenza, con la lucida forza delle fede e delle sue qualità umane e professionali.
A tutti noto come il “giudice ragazzino” ma pochi sanno come anche questa espressione sia una risposta ai tentativi, spesso malcelati, di derisione per chi si fa testimone della fede. L’espressione si deve a Nando Dalla Chiesa, figlio del generale anche lui vittima della mafia, in polemica con l’espressione coniata da Francesco Cossiga che, neanche un anno dopo l’assassinio di Livatino, rivolgendosi a dei giovani magistrati li fece oggetto di una delle sue invettive: «Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno…? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza!». L’allora Presidente della Repubblica fu vittima, probabilmente, di un’uscita infelice, ma di certo nel caso di Rosario Livatino quel fuoco giovanile che lo aveva guidato fino al martirio non era di certo un vacuo ardore adolescenziale ma piuttosto bruciante ispirazione dello Spirito.
La preghiera. Come ricorda il postulatore della fase diocesana del Processo di Canonizzazione don Giuseppe Livatino, il beato Rosario ogni mattina, prima di recarsi in ufficio, sostava in preghiera per qualche minuto nella Chiesa di San Giuseppe, accanto al Palazzo di Giustizia: era il suo modo di affidare al Signore il delicato lavoro cui era preposto. Nelle sue piccole agendine scriveva: “S.T.D.”. Un’antica sigla, che indica “Sub tutela Dei”, «sotto lo sguardo di Dio». Era questo il suo modo di amministrare e perseguire la giustizia.
Da studente liceale Rosario Livatino era impegnato nell’associazionismo cattolico. È all’interno dell’Azione Cattolica, infatti, che dedica le sue energie in ambito extra-scolastico; un modo per indirizzare ogni scampolo della sua vita al servizio degli altri. Da brillante studente, ferrato in tutte le materie, saltava la ricreazione in cortile per restare in classe ad aiutare i compagni in difficoltà. Amava lo studio, amava la relazione con gli altri, amava il servizio, amava la Parola di Dio come ispiratrice delle sue azioni quotidiane. In una confidenza raccolta dal suo insegnante di religione in prima liceo scriveva: «La Bibbia è lo scrigno dove è racchiuso il gioiello più prezioso che esista: la parola di Dio. Un gioiello che non si consuma mai… e che non è futile ornamento, ma un meraviglioso e saggio maestro di vita, di vita spirituale e materiale che in esso si fondono a indicare all’uomo una via, una via piena di luce… Leggendola e comprendendola, l’uomo ne riceve i migliori consigli perché la sua vita spirituale si svolga serena e senza compromessi». Anni dopo, sulla sua scrivania, oltre che le carte processuali e i Codici era sempre presente anche una copia del Vangelo. Un testo pieno di appunti, richiami, cenni, annotazioni, segno di una meditazione continua e costante che accompagnava alla lettura del Codice penale il discernimento orante mediante le pagine del Vangelo. Il suo era un cristianesimo che si nutriva di studio, di letture meditate, di riflessione. La sua vita riecheggia il motto fondativo dell’Azione Cattolica: “Preghiera, Azione, Sacrificio”, e con essi non a caso anche il quarto impegno lo “Studio”. Studio essenziale per la conoscenza e il discernimento, la preghiera come bussola per l’impegno, l’impegno anche al costo del sacrificio.
Senza compromessi. È per questo che Rosario pienamente impegnato nel suo mondo, raccogliendo le urgenze della sua Sicilia martoriata dalla famelica prepotenza della mafia, rifiutava in ogni forma lo spirito mondano. La sua missione, la sua chiamata, era servire lo Stato e servire Dio da magistrato, una visione quasi sacerdotale, sulla linea della chiamata alla santità universale fatta propria dal Concilio Vaticano II. Scriveva nei suoi diari: «La vita è tutta tessuta di ideali, di fini da conseguire che, puri o impuri, hanno un solo scopo: il raggiungimento del bene. Il bene per noi, per il prossimo; e da questi ideali, da questi fini derivano il senso buono e cattivo della vita. Esaminando tutto ciò che ci circonda, attraverso un processo logico e razionalistico, si perviene a una origine comune, a un essere di indefinibile natura che ha dato origine a tutto. Tutto l’universo, per quanto immenso, si identifica in questo essere. Dio è come un perno su cui gira tutto ciò che è. Tutto viene e ritorna a Dio, Dio è principio e fine. L’uomo nella sua follia peccaminosa pensa spesso al principio, ma molto raramente alla fine…»
In una conferenza tenuta a Canicattì, la sua città, il 30 aprile 1986 dal titolo “Fede e diritto”, spiegava senza mezzi termini che «l’indipendenza del Giudice […] non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del Giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività».
Rosario Livatino non era perciò soltanto un “magistrato cattolico”, non è questo che lo ha portato alla beatificazione. Rosario Livatino era un cristiano che, da magistrato, è stato ucciso proprio per il suo modo cristiano di vivere il servizio allo Stato e alla giustizia. Un modo scomodo perché interprete del Vangelo. Non a caso la motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì ad assassinarlo fu «la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di Cosa Nostra Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile, lo definiva con spregio “santocchio” per la sua frequentazione della Chiesa. Dai persecutori era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante».
Il senso di giustizia. Tutte le mattine, prima di entrare in ufficio, non mancava di far visita alla chiesa di San Giuseppe, vicino al Palazzo di Giustizia, per raccogliersi in preghiera dinanzi al Santissimo Sacramento. Lo ricorda bene l’allora parroco mons. Giuseppe Di Marco. In silenzio per portare davanti al Signore le sue preoccupazioni e il discernimento nei casi concreti che erano sottoposti al vaglio del suo giudizio. Lì invocava l’assistenza dello Spirito Santo per poter essere strumento di giustizia, una giustizia umana che non tradisse mai la pienezza della dimensione divina.
«Il magistrato – scriveva ancora Livatino – deve, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; deve avvertire tutto il peso del potere affidato nelle sue mani… disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione».
Il martirio. Sapeva di rischiare la vita. Aveva toccato la mafia in quello che più contava per gli uomini di Cosa Nostra: il denaro, le proprietà, i beni. Occupandosi di quella che sarebbe esplosa come la Tangentopoli siciliana, aveva fatto sovente ricorso allo strumento della confisca dei beni, l’unico modo, secondo il disegno del collega Giovanni Falcone, “per far male alla mafia”.
Non era un incosciente o un temerario, sapeva di rischiare la vita. Nel suo diario emerge tutta la sua sofferenza e il suo discernimento nel perseguire la giustizia come missione, come chiamata a testimoniare il suo essere cristiano nel mondo. Un discernimento fatto anche di momenti di paura, di crisi di coscienza, affidati però ogni volta con la preghiera al Signore. Le crescenti minacce, i tentativi di condizionare il perseguimento delle sue battaglie giudiziarie contro il sistema di collusione tra mafia, politica e affari lo tormentava: «Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni» (19 giugno 1984).
Sapeva di rischiare la vita, ma ciò non lo faceva desistere dal perseguire la giustizia. Né voleva però che le sue scelte potessero mettere a rischio altre vite. Annotava nel suo diario il 27 maggio 1986 «Oggi mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori». Ma la preoccupazione non era solo per loro. Il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza aveva proposto l’assegnazione di una scorta con auto blindate, lui rifiutò: «Non posso coinvolgere padri di famiglia nel mio destino. Del resto, se vogliono, possono comunque usare il tritolo». È quello che accadde con il suo collega Rocco Chinnisi, il capo dell’ufficio istruzione di Palermo, vittima di un’autobomba il 29 luglio 1983 e, due anni dopo quel tragico 21 settembre 1990, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
La misericordia. Il suo impegno straziante non stimolava tuttavia desideri di vendetta. Nel corso di un regolamento di conti, un boss mafioso venne colpito a morte. A un ufficiale dei carabinieri tutto soddisfatto e gongolante accanto a quel corpo senza vita, Livatino intimò perentorio: «Di fronte alla morte chi ha fede, prega; chi non ce l’ha, tace!». Dopo la sua morte il custode dell’obitorio raccontò di tutte le volte che lo aveva visto pregare accanto a cadaveri di individui pregiudicati, affiliati alla mafia e vittima delle faide, persone che aveva incontrato e perseguito nel rispetto della legge, ma che restavano suoi fratelli in Cristo cui rivolgere la sua preghiera di carità cristiana.
L’eredità. L’insegnamento che lascia la sua testimonianza di vita è quello di una profonda correlazione tra fede e diritto. Come Livatino spiegò nella conferenza a Canicattì dell’aprile del 1986 esse sono due realtà «continuamente interdipendenti fra loro, sono continuamente in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile. […] Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata».
È questa l’eredità che Rosario Livatino ha lasciato. Un modo autentico di perseguire la giustizia, nella verità e nell’amore, nella luce di Dio e nella relazione con il prossimo, nella dignità e nel rispetto di ogni persona umana. Verità scomode, difficili da far convivere, ma che camminano sulla testimonianza del sangue dei martiri, oggi come allora; contro la mafia e contro tutte le prepotenze che la fede aiuta a riconoscere e ad arginare.
(c) Vito Rizzo 2021
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