LA GIUSTIZIA E IL “FINE PENA”: IL CASO GIOVANNI BRUSCA

La scarcerazione di Giovanni Brusca, il braccio destro del boss della mafia Totò Riina, l’autore di centinaia di delitti tra cui la strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie e i componenti della scorta, ha turbato ciascuno di noi. Reo confesso dello scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo, grazie agli sconti di pena maturata quale collaboratore di giustizia, è uscito dal carcere di Rebibbia dopo 25 anni, con la formula della libertà vigilata e l’inserimento nel programma di sicurezza riservato ai “pentiti”.

Una “retribuzione” inadeguata per i delitti commessi? Un “premio” inadeguato per le incomplete notizie fornite agli inquirenti? Eppure dobbiamo chiederci: la giustizia è solo questo?

La questione infatti non è se un boss mafioso, autore di una pluralità di omicidi, possa non finire la propria vita in carcere. Se la nostra Carta costituzionale dispone che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (art.27, comma 3) è evidente che i diritti universali valgano per tutti, anche per chi quei diritti universali li ha negati con la propria condotta di vita.

Un cristiano dovrebbe più di altri fare lo sforzo di capirlo: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 43-45). O ancora, «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. […] Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. […] Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6, 27:28, 32:34, 36:38). Se Gesù ha detto così, il nostro sforzo è entrare il quel “senso”, non annacquarlo nella casistica relativistica della nostra fragilità umana.

È evidente che la sete di vendetta non può essere l’unica ragione per appagare un senso di giustizia. Anzi, la vendetta di per sé non genera giustizia. Anche nella Bibbia la falsa convinzione dell’esercizio da parte di Dio di una giustizia meramente retributiva è il retaggio della “lettura umana” che in epoca tardo-giudaica e poi per lunghi tratti della stessa storia del cristianesimo ha disegnato la struttura del diritto penale moderno. La tsedāqāh di Dio (la Giustizia) è l’amore accogliente che perdona e apre lo spazio alla conversione, è l’humus in cui attecchisce il desiderio di cambiare il cuore di pietra in un cuore di carne (Ez 36,26-27), è la croce redentiva di Cristo, il Dio che si fa carico del peccato del mondo per offrire un nuovo inizio all’umanità e a ciascun uomo.

C’è una continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento che un autore come Eugene Wiesnet ha efficacemente evidenziato superando la dimensione kantiana della “pena retributiva” per promuovere anche nel diritto penale una “pena redentiva”.

La “retribuzione” è il modo per placare (forse illusoriamente e mai in maniera piena) il dolore della vittima, ma al tempo stesso per offrire allo Stato una forza contrattualistica nell’esercizio della sanzione. È questo il vulnus di un siffatto esercizio della giustizia; la possibilità di vendicare l’offesa o di mitigare questa vendetta di fronte a vantaggi per l’Ordinamento. È questa la logica che sta alla base degli sconti premiali riconosciuti ai collaboratori di giustizia. Un do ut des che poco o nulla ha a che fare con la “rieducazione” del condannato.

Nel caso di Giovanni Brusca, come di tanti altri forse meno noti, la questione non è se sia giusto o meno prevedere un “fine pena”, piuttosto è se le ragioni che hanno portato alla scarcerazione siano quelle giuste o meno. O meglio, se nel “fine pena” la Giustizia abbia adempiuto il suo compito.

Nella dimensione meramente contrattualistica dello sconto sulla pena retributiva, il vulnus, quello che manca, è l’umanità della vittima, dei suoi familiari, della società, del colpevole. Il reato rompe la lealtà della relazione; cosa succede dopo? Che vita c’è dopo?

Pensare alla giustizia soltanto in una logica retributiva fa dimenticare tutto questo.

Caino resta Caino, ma anche no. Caino può cambiare, può guardare a suo fratello, può vedere suo fratello. Non è mai troppo tardi, anche se il reato è ormai commesso. La questione non è dunque il “fine pena”, la questione è perché il “fine pena”.

Nel caso di Giovanni Brusca il “fine pena” arriva per una negoziazione con lo Stato, perché nella lotta alla mafia lo Stato ha guadagnato informazioni e ha pagato quelle informazioni con uno sconto di pena. È meritato? Se la legge lo consente, una legge voluta da Giovanni Falcone, probabilmente sì. È giusto? Dipende. Dipende da quale sia l’obiettivo che intende perseguire la giustizia. Se guarda solo al reato (o ai reati), o se guarda anche alla relazione (e alle relazioni).

Nella Bibbia la Giustizia è relazione, relazione di Dio con l’uomo, dell’uomo con Dio e degli uomini nella loro convivenza relazionale. Nella pratica africana dell’Ubuntu questo emerge con maggiore chiarezza: «tutto è in relazione», e l’esercizio della giustizia serve a ripristinare, a recuperare, a rigenerare su basi nuove la lealtà della relazione.

«Tutto è in relazione» è il leit-motiv anche della Laudato si’ e, su questi temi, ancor più della Fratelli Tutti. Una Giustizia così intesa è quella che ha consentito il processo di pacificazione nel Sudafrica dell’Apartheid, è il processo voluto dalle vittime per tornare a vivere, è il processo voluto da Nelson Mandela dopo 27 anni di carcere ingiusto per offrire al suo popolo un nuovo inizio.

Non sappiamo se Giovanni Brusca in questi 25 anni di reclusione abbia scontato la sua “pena di coscienza”, se è pronto a ricominciare sulla base di una consapevolezza diversa dei suoi stessi, atroci, errori, se ha fatto veramente i conti con il sangue di cui si è macchiato. Non lo sappiamo.

Eppure dobbiamo sperare sia così. Allora sì, e soltanto così, la Giustizia avrebbe raggiunto il suo scopo.

(c) Vito Rizzo 2021

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