Con la sua ultima lettera apostolica “sulla formazione liturgica del popolo di Dio” Papa Francesco ha voluto sottolineare ancora una volta – e non appaia né banale né scontato – la centralità di Gesù Cristo nella vita della Chiesa e di ciascun cristiano. Il titolo, Desiderio desideravi, prende le mosse dal passo del Vangelo di Luca in cui Gesù, prima dell’ultima cena, afferma di aver «desiderato ardentemente» mangiare la Pasqua con i suoi discepoli (Lc 22,15); è lo stesso desiderio che Gesù continua a vivere quotidianamente nel rapporto con la Chiesa e che ha proprio nel dono eucaristico il suo centro propulsore.
Il papa chiarisce infatti che «Fin da subito la Chiesa è stata consapevole che non si trattava di una rappresentazione, fosse pure sacra, della Cena del Signore: non avrebbe avuto alcun senso e nessuno avrebbe potuto pensare di “mettere in scena” – tanto più sotto gli occhi di Maria, la Madre del Signore – quel momento altissimo della vita del Maestro. Fin da subito la Chiesa ha compreso, illuminata dallo Spirito Santo, che ciò che era visibile di Gesù, ciò che si poteva vedere con gli occhi e toccare con le mani, le sue parole e i suoi gesti, la concretezza del Verbo incarnato, tutto di Lui era passato nella celebrazione dei sacramenti» (DD 9).
È questa dunque l’eredità/missione affidata alla Chiesa per il suo essere pellegrina nel mondo contemporaneo. Come sottolinea il papa «La fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è» (DD 10), ed è proprio la liturgia che «ci garantisce la possibilità di tale incontro» (DD 11).
Questa consapevolezza cambia anche il modo in cui ciascuno di noi è chiamato a vivere la celebrazione eucaristica: «A noi non serve un vago ricordo dell’ultima Cena: noi abbiamo bisogno di essere presenti a quella Cena, di poter ascoltare la sua voce, mangiare il suo Corpo e bere il suo Sangue: abbiamo bisogno di Lui. Nell’Eucaristia e in tutti i sacramenti ci viene garantita la possibilità di incontrare il Signore Gesù e di essere raggiunti dalla potenza della sua Pasqua. La potenza salvifica del sacrificio di Gesù, di ogni sua parola, di ogni suo gesto, sguardo, sentimento ci raggiunge nella celebrazione dei sacramenti» (DD 11).
Troppo spesso rischiamo che la celebrazione eucaristica si limiti a una partecipazione abitudinaria a un rito, perdendo il senso e la bellezza di questo incontro con Gesù. Troppo spesso non viviamo i diversi momenti con la necessaria consapevolezza e con il naturale stupore per i doni di grazia che ci vengono ogni volta elargiti. Grandi santi non facevano che ribadire questo semplice concetto: se la gente sapesse quale grandezza si compie nella celebrazione eucaristica ci sarebbe la ressa all’ingresso delle Chiese. Così non è, lo sappiamo bene. Ed allora è giusto interrogarsi su come fare per creare una breccia nel muro di indifferenza che si frappone tra questa grazia e l’intera umanità che, per volontà di Dio, ne è la destinataria. È giusto interrogarsi su cosa la Chiesa possa fare per rendere comprensibile la bellezza che si cela nel Mistero. Il papa evidenzia che «Se venisse a mancare lo stupore per il mistero pasquale che si rende presente nella concretezza dei segni sacramentali, potremmo davvero rischiare di essere impermeabili all’oceano di grazia che inonda ogni celebrazione» (DD 24).
Ciascuno di noi è quindi chiamato a riassaporare questo stupore dinanzi al Mistero eucaristico in quanto «Lo stupore è parte essenziale dell’atto liturgico perché è l’atteggiamento di chi sa di trovarsi di fronte alla peculiarità dei gesti simbolici; è la meraviglia di chi sperimenta la forza del simbolo, che non consiste nel rimandare ad un concetto astratto ma nel contenere ed esprimere nella sua concretezza ciò che significa».
Riprendendo il pensiero di Romano Guardini, papa Francesco scorge il compito principale della formazione liturgica: «l’uomo deve diventare nuovamente capace di simboli». Un impegno che – ribadisce il papa – riguarda tutti, ministri ordinati e fedeli. E ancora, «Il compito non è facile perché l’uomo moderno è diventato analfabeta, non sa più leggere i simboli, quasi non ne sospetta nemmeno l’esistenza. Ciò accade anche con il simbolo del nostro corpo. È simbolo perché intima unione di anima e corpo, visibilità dell’anima spirituale nell’ordine del corporeo e in questo consiste l’unicità umana, la specificità della persona irriducibile a qualsiasi altra forma di essere vivente. La nostra apertura al trascendente, a Dio, è costitutiva: non riconoscerla ci porta inevitabilmente ad una non conoscenza oltre che di Dio, anche di noi stessi. Basta vedere il modo paradossale con il quale viene trattato il corpo, ora curato in modo quasi ossessivo inseguendo il mito di una eterna giovinezza, ora ridotto ad una materialità alla quale è negata ogni dignità. Il fatto è che non si può dare valore al corpo partendo solo dal corpo. Ogni simbolo è nello stesso tempo potente e fragile: se non viene rispettato, se non viene trattato per quello che è, si infrange, perde di forza, diventa insignificante» (DD 44).
Ci rendiamo conto, parafrasando un’altra espressione cara al magistero di Francesco, che “tutto è connesso” (Laudato si’ n.117 e n.138; Fratelli tutti n.34). Quello che vale per il creato, vale anche per la pienezza che ciascuna creatura è chiamata a vivere in comunione con il Creatore: «dobbiamo riacquistare fiducia nei confronti della creazione. Intendo dire che le cose – con le quali i sacramenti “sono fatti” – vengono da Dio, a Lui sono orientate e da Lui sono state assunte, in modo particolare con l’incarnazione, perché diventassero strumenti di salvezza, veicoli dello Spirito, canali di grazia» (DD 46).
Solo questa nuova consapevolezza può quindi guidare un rinnovamento della stessa celebrazione che metta «l’arte del celebrare […] in sintonia con l’azione dello Spirito» (DD 49). Un’arte del celebrare che coinvolge tanto i ministri ordinati quanto l’assemblea: «il radunarsi, l’incedere in processione, lo stare seduti, in piedi, in ginocchio, il cantare, lo stare in silenzio, l’acclamare, il guardare, l’ascoltare. Sono molti modi con i quali l’assemblea, come un solo uomo (Ne 8,1), partecipa alla celebrazione. Compiere tutti insieme lo stesso gesto, parlare tutti insieme ad una sola voce, trasmette ai singoli la forza dell’intera assemblea. È una uniformità che non solo non mortifica ma, al contrario, educa i singoli fedeli a scoprire l’unicità autentica della propria personalità non in atteggiamenti individualistici ma nella consapevolezza di essere un solo corpo. Non si tratta di dover seguire un galateo liturgico: si tratta piuttosto di una “disciplina” – nel senso usato da Guardini – che, se osservata con autenticità, ci forma: sono gesti e parole che mettono ordine dentro il nostro mondo interiore facendoci vivere sentimenti, atteggiamenti, comportamenti» (DD 51).
Ecco che allora partecipare correttamente all’assemblea liturgica aiuta a «mettere ordine dentro il nostro mondo interiore». La grazia dei sacramenti è proprio questa.
Non c’è modo migliore, dunque, di affidare noi stessi alle parole da pastore del papa; parole che ci aiutano a cogliere la pienezza del valore dei nostri gesti durante la celebrazione eucaristica. Un invito a vivere con pienezza il mistero e lasciarci trasformare da esso: «Ogni gesto e ogni parola contiene un’azione precisa che è sempre nuova perché incontra un istante sempre nuovo della nostra vita. […] Ci inginocchiamo per chiedere perdono; per piegare il nostro orgoglio; per consegnare a Dio il nostro pianto; per supplicare un suo intervento; per ringraziarlo di un dono ricevuto: è sempre lo stesso gesto che dice essenzialmente il nostro essere piccoli dinanzi a Dio. Tuttavia, compiuto in momenti diversi del nostro vivere, plasma la nostra interiorità profonda per poi manifestarsi all’esterno nella nostra relazione con Dio e con i fratelli. Anche l’inginocchiarsi va fatto con arte, vale a dire con una piena consapevolezza del suo senso simbolico e della necessità che noi abbiamo di esprimere con questo gesto il nostro modo di stare alla presenza del Signore. Se tutto questo è vero per questo semplice gesto, quanto più lo sarà per la celebrazione della Parola? Quale arte siamo chiamati ad apprendere nel proclamare la Parola, nell’ascoltarla, nel farla ispirazione della nostra preghiera, nel farla diventare vita? Tutto questo merita la massima cura, non formale, esteriore, ma vitale, interiore, perché ogni gesto e ogni parola della celebrazione espresso con “arte” forma la personalità cristiana del singolo e della comunità» (DD 53).
(c) Vito Rizzo 2022
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