La grazia della fede ci dona la granitica e serena certezza che “tutto concorre al bene per coloro che amano Dio” (Rm 8,28). È quello che stiamo sperimentando anche in questo lungo periodo di emergenza COVID-19, con la rinuncia alla celebrazione eucaristica da parte del popolo. Una Quaresima vissuta in autentico digiuno dei beni più preziosi, Dio e l’altro, le due espressioni dell’agape divina che ciascun cristiano è chiamato a incarnare nella relazione con Dio e con il prossimo. Un digiuno quanto mai autentico e doloroso quello dell’Eucaristia che ha cambiato lo stesso modo di percepire la nostra esperienza di fede.
I sacerdoti, anche i meno avvezzi, si sono riversati sui social per garantire il più possibile la prossimità della celebrazione eucaristica a porte chiuse e i momenti di riflessione e di preghiera in preparazione della Pasqua.
La preghiera del Papa nella pienezza spirituale di una piazza San Pietro deserta ci ha fatto sperimentare, più di tanti accalcati pellegrinaggi o pii esercizi, l’autenticità della comunione, dell’essere parte essenziale del popolo santo di Dio.
L’appuntamento della Messa del Papa la mattina a Santa Marta si è trasformato da evento di nicchia a evento mediatico in grado di scandire i tempi delle nostre giornate come opportunità di partecipazione, di preghiera, di meditazione e di adorazione.
Un bene vissuto in maniera circoscritta che d’improvviso ha cambiato le abitudini di tante famiglie. Chiese chiuse, o quantomeno deserte, case con i piccoli altarini attorno alla TV diventate piccole chiese domestiche.
Ma continuare a vivere la Quaresima anche dopo la Pasqua è ora l’esperienza che si fa più fatica ad accettare.
Continuare ad “accontentarsi” della comunione spirituale, o dell’adorazione eucaristica “in diretta streaming”, sembra quasi allontanarci dall’esigenza “umana” di vivere il mistero incarnato.
C’è chi auspica l’apertura delle Chiese in quelle Diocesi che hanno disposto l’improvvisa serrata; un’esigenza vera, legittima, giusta, finalmente innocua.
C’è chi spera in un rapido ritorno alla normalità delle celebrazioni cum populo, esigenza altrettanto vera, legittima, giusta, ma stante il perdurare dell’esigenza del contenimento sociale, ancora inopportuna.
Forse non a tutti è dato cogliere la profonda carità mostrata dalla Chiesa nella rinuncia a vivere con pienezza di popolo la Pasqua. Una rinuncia che è stata testimonianza di grazia, operata con grande senso di amore e di responsabilità. Eppure bisogna con mitezza accettare il perdurare del tempo della prova: pazientare ancora un po’ per le Messe con la partecipazione del popolo è doveroso. Dobbiamo attendere la ripartenza, che sia essa a inizio maggio o ancora oltre.
È un’esperienza questa che la grazia della fede aiuta a vivere accomunati a tanti fratelli, ai tanti cristiani che nel mondo non hanno la “comodità” dei sacramenti sottocasa. In fondo stiamo facendo un’esperienza della cattolicità, un’esperienza che ci consente di vivere nella serenità di sapere che, nonostante non possiamo essere direttamente protagonisti della celebrazione, i sacerdoti in tutto il mondo continuano quotidianamente a celebrare. Cristo è presente. Abbiamo la certezza che questa è la missione della Chiesa fino alla fine dei tempi. È questa la certezza della nostra speranza.
Ma da un punto di vista umano la rinuncia alla comunione sacramentale si fa sempre più pesante, proprio perché siamo fragili e deboli. Solo la grazia di Dio e la carità possono rendere più lieve il peso.
Ma, detto ciò, perché non iniziare a immaginare che in quella creatività auspicata e incoraggiata da papa Francesco ci possa essere anche dare la comunione fuori dalla celebrazione? Magari andando in Chiesa per la preghiera personale e trovando il prete o un altro ministro pronto ad accogliere i fedeli singolarmente? Come si fa con gli ammalati attraverso l’opera dei Ministri dell’Eucaristia.
Ecco, forse dovremmo essere considerati un po’ di più degli ammalati che hanno bisogno del conforto della comunione sacramentale. Soprattutto, terminato il digiuno di Quaresima, potrebbe essere il modo più creativo e prudente di far vivere a ciascuno con maggior pienezza la Pasqua.
Qualunque riflessione teologica, infatti, a causa della nostra umana stanchezza sembra non bastare più. Ecco che allora ci soccorrono le parole del Salmista a giustificare questo desiderio profondo della comunione sacramentale: “Abbi pietà di me, o Signore, perché sono sfinito; risanami, o Signore, perché le mie ossa sono tutte tremanti. Anche l’anima mia è tutta tremante; e tu, o Signore, fino a quando? Ritorna, o Signore, liberami; salvami, per la tua misericordia” (Salmo 6, 2-4).
© Vito Rizzo 2020
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