Quante volte anche Papa Francesco ci ha ricordato che la parola può uccidere. Anche all’interno della Chiesa, anche tra devoti cristiani. Un cattivo uso della parola può essere generatore di male, di dolore, può essere fonte di peccato, ancor più se quel chiacchiericcio è procurato senza che la Parola, una volta ascoltata, abbia realmente attecchito nel nostro cuore.
Dovremmo più spesso ricordarci della parabola del Seminatore e chiederci continuamente se per la Sua Parola siamo stati strada, pietra, cespuglio di rovi o terreno buono. Il metodo di questa verifica ce lo dà direttamente Gesù: «il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la Parola dal loro cuore, perché non avvenga che, credendo, siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, ricevono la Parola con gioia, ma non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo della prova vengono meno. Quello caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione. Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza» (Lc 8, 11b-15).
Per comprendere dunque se le nostre parole sono ispirate o meno dalla Sua Parola le possiamo passare al vaglio attraverso un altro metodo: quello dei “tre setacci di Socrate”. Chiariamo bene: la popolare storia che gira sui social non è da attribuire realmente al filosofo greco vissuto nel V secolo a.C. ma è una invenzione letteraria che ha fatto la fortuna di Dan Millman ed è tratta dal suo libro “La via del guerriero di pace” (1980).
“Socrate aveva reputazione di grande saggezza. Un giorno venne qualcuno a trovarlo e gli disse: «Sai cosa ho appena sentito sul tuo amico?»
«Un momento.» rispose Socrate. «Prima che me lo racconti, vorrei farti un test, quello dei tre setacci.»
«I tre setacci?»
«Prima di raccontare una cosa sugli altri, è bene prendersi il tempo di filtrare ciò che si vorrebbe dire. Lo chiamo il test dei tre setacci. Il primo setaccio è la verità. Hai verificato se quello che mi dirai è vero?»
«No… ne ho solo sentito parlare…»
«Molto bene. Quindi non sai se è la verità. Continuiamo col secondo setaccio, quello della bontà. Quello che vuoi dirmi sul mio amico, è qualcosa di buono?»
«Ah no! Al contrario.»
«Dunque…» continuò Socrate, «… vuoi raccontarmi brutte cose su di lui e non sei nemmeno certo che siano vere. Forse puoi ancora passare il test, rimane il terzo setaccio, quello dell’utilità. È utile che io sappia cosa avrebbe fatto questo amico?»
«No davvero.»
«Allora…» concluse Socrate, «… quel che volevi raccontarmi non è né vero, né buono, né utile; perché volevi dirmelo?»”.
Quante volte ci capita di dire cose che non siamo certi siano vere, e che non sono né buone né utili. Quante volte opera in noi non di certo la grazia della Parola che abbiamo ascoltato ma la nostra miseria umana che il nemico tende ad alimentare approfittando della nostra leggerezza, superficialità o noncuranza?
Anche qui dovremmo sempre più, tanto all’interno quanto all’esterno dei nostri contesti ecclesiali, alimentarci della Sua Parola.
Se passiamo il primo setaccio, quello della verità (si badi, oggettiva, non la nostra percezione della verità), Gesù ci dice di non diffondere la cosa a danno del fratello reo di una cattiva condotta ma di correggerlo fraternamente: «Se tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e convincilo fra te e lui solo. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello» (Mt 18,15) e avrai fatto guadagnare a lui la verità. Soltanto se «se non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia confermata per bocca di due o tre testimoni» (Mt 18,16); si badi, sempre dinanzi all’autore della condotta, mai alle sue spalle. Soltanto «Se rifiuta d’ascoltarli, dillo alla chiesa», sempre con lo spirito di correzione, mai per offrirlo al pubblico biasimo.
La fonte di questa condotta ci viene spiegata da San Paolo nella Lettera ai Galati: «Fratelli, se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con spirito di dolcezza» (Gal 6,1). Il nostro quarto setaccio è quindi la conformità alla Parola di Dio e l’intenzione che guida le nostre parole.
Ci soccorre a questo punto una bellissima preghiera di Sant’Ignazio di Loyola: «Ispira le nostre azioni Signore e guidaci con il Tuo santo aiuto, perché ogni nostra attività possa trovare da Te il suo principio e in Te il suo compimento».
Quante parole non uscirebbero dalla nostra bocca, quante parole non verrebbero scritte sui social, quanti conciliaboli dentro e fuori le nostre sacrestie dovrebbero trovare nuovi e più edificanti argomenti.
Forse è solo una piccola riflessione di fine estate ma quanto bene farebbe alla nostra vita e al nostro essere Chiesa se solo lo ascoltassimo un po’ di più e parlassimo giusto un po’ di meno. Ricordiamoci a tal proposito un altro ammonimento di Gesù: «Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”; “No, no”; il di più viene dal Maligno» (Mt 5, 37)…
(c) Vito Rizzo 2022
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