Nicola Vacca non lo ammetterà mai, ma il suo anti-teismo (cosa ben diversa dall’a-teismo) è un grido straziato di chi ama sentendosi incompreso e non ricambiato. Il suo Libro delle Bestemmie, da poco edito da Marco Saya Edizioni, racchiude graffi di umanità di chi non nega Dio (a-tesimo) ma critica Dio, lo accusa, lo offende, perché non ne comprende la logica, il modo di fare. Di qui l’anti-teismo. Nicola Vacca a tratti sembra avercela però, più che con Dio, con i devoti che se ne fanno scudo, che dietro di lui si costruiscono alibi. In fondo non è neanche un anti-teismo ma è quasi essere, umanamente, anti-teisti, contro chi si riempie la bocca di Dio senza lasciarsi abitare da Lui. Del resto Gesù lo aveva già detto a chiare lettere: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Ecco dunque perché da credente lo capisco; ma credo proprio che sia lui a non capire Dio. A confondere il Dio della Promessa con il principe del mondo aduso all’inganno anche delle menti più raffinate, irrequiete, passionali come quella di Vacca.
Lo si capisce bene nella sezione intitolata “dalla parte del cecchino”, un grido di insofferenza di fronte ai mali del mondo e al dramma della morte. Per Vacca è dio il colpevole di tutto questo «un boia che non si sporca le mani». Certo la morte è incomprensibile senza il dono della fede, senza la comprensione del Mistero della Risurrezione di Cristo. La risposta che Nicola Vacca non vuole accettare (e che darebbe un senso a tutte le sue angosce) è proprio nel nome di Gesù. Di Gesù sulla croce. Quello che è «scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1, 23). Ma sta proprio lì la risposta ai mali del mondo, la dimensione di senso che altrimenti risulta incomprensibile: «Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (1Cor 15, 55-57).
Nicola Vacca non riesce a coltivare la risposta di Giobbe perché si abbandona al dramma del Qohélet (Questi nostri giorni del Qohélet). Eppure, in fondo, ribellandosi al Padre lo fa sentendosi fratello di Cristo. Lo guarda di-sperato, senza la speranza della fede, ed è per questo che mentre lo contempla e ne condivide la fraterna sofferenza (Eresia del Cristo velato), chiosa con il rifiuto della Resurrezione (Cristo alle intemperie). Nicola Vacca accusa dio, non Dio. Accusa l’idea di qualcuno che non riconosce nei comportamenti dell’uomo (Il nostro pane quotidiano). Non accetta che Dio possa lasciar fare all’uomo, alla sua mediocrità, non accetta che sia questo il prezzo che Dio paga alla nostra libertà. È questo che lo porta a bestemmiare dio, non Dio. Non a caso ammette che questo uomo, lo stesso uomo con cui non può non riconoscersi fratello, vive in «disgrazia di dio». Ma ciò non è colpa di Dio, ma una scelta dell’uomo…
La poesia di Nicola Vacca è un grido di umanità, una bestemmia contro dio, certo. Ma che Dio sa ascoltare come una rabbia d’amore, un amore filiale.
(c) Vito Rizzo 2024
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